mercoledì 25 giugno 2014

UNA RECENSIONE DI GABRIELLA RISTA

Sono convinta che sia un piacere parlare di libri e confrontarsi con le pagine scritte a cui un autore consegna la sua visione del mondo e delle cose, servendosi naturalmente di un suo immaginario personale, in cui confluisce tutto il suo vissuto e cioè la preparazione culturale, l’osservazione dei fatti, il  personalissimo modo di interpretare la realtà e, perché no, anche le  esperienze, i  desideri,  le  ansie e le speranze.

Ed è da qui che si crea quella magia che è propria della pagina scritta, quell’incontro-scontro con il lettore. Come sempre dico, una volta che il libro viene stampato, esso è di tutti coloro che gli si accostano perché in esso i lettori trovano una consonanza o un’opposizione che non è detto coincida con quanto l’autore ha voluto dire ma sempre troveranno materia di riflessione  soprattutto se l’autore e il libro restituiscono una “gioiosa voglia di leggere”, perché, come dice Nick Hornby, “è vero che ogni tanto è meglio una partita di calcio...ma è anche vero che se il libro è bello, non c’è partita  né concerto rock che tenga”. E il libro che viene presentato questa sera è certamente un bel libro, pur se la materia affrontata è drammatica e complessa.
Fatta questa premessa, procediamo con ordine e cominciamo dal titolo: spesso il titolo di una raccolta coincide con il racconto che la apre oppure è la sintesi dell’ispirazione che la governa oppure nulla di tutto questo; in questo caso l’undicesima, titolo enigmatico e inquietante, mi ha fatto molto pensare: esso è il titolo dell’ultimo racconto come undicesima è l’undicesima vittima di un elenco quasi cronachistico di vittime. I racconti sono 11: mi sono chiesta se questo numero 11 ricorrente avesse per l’autore un significato, se egli avesse voluto cioè indicare una via da seguire per la comprensione del messaggio sotteso ai racconti.
In effetti il titolo è la chiave di lettura del libro in quanto il numero 11 ha molti significati tutti confluenti e che si addicono a quanto narrato: intanto è un numero primo e palindromo e per la cabala i numeri primi sono numeri speciali perché possono essere divisi solo per se stessi o per il numero 1: sono dunque considerati numeri magici. Nell’arte, dal momento che il numero 10 è simbolo di perfezione e completezza e indica il decalogo e la legge, il numero 11, in quanto trasgressione del numero 10, simboleggia il peccato. Ma bisogna fare riferimento soprattutto alla tetraktys (quadruplo) della scuola pitagorica: il numero 11 assume le caratteristiche simboliche di uscita dalla serie numerica ordinatrice del mondo, dall’armonia dei rapporti numerici sacri (la somma di tutti i punti della tetraktys è 10, il numero perfetto composto dalla somma dei primi 4 numeri 1+2+3+4=10) che sottraggono l’ordine del mondo al caos.
Qualunque sia la spiegazione che vogliamo adottare, il numero 11 ci rimanda quindi al caos, al male e alla sua presenza dominante nel mondo e nelle azioni degli uomini, che è poi la direttrice della materia trattata.
Se il titolo è come abbiamo detto la chiave di lettura, il primo racconto, Pietre rosse, ne è il preludio perché contiene in nuce le tematiche che verranno successivamente affrontate: vi è rappresentata la Sicilia con la sua natura e i suoi paesaggi assolati e aridi, vi è il ricordo degli usi e dei costumi tramandati da generazioni, vi è la solitudine atavica, vi è la violenza sciocca e inutile che tinge le pietre di rosso; ma per certi versi pietre rosse ne è anche la conclusione ideale nel senso che se il tema dominante di tutti  i  racconti è il male declinato in tutte le sue forme possibili, è in Pietre rosse che è possibile trovare una speranza di redenzione che viene riposta nella madre terra, madre terribile che tutto ricorda.
Il libro inoltre si chiude con l’undicesima vittima, giovane siciliana di Ramacca e con l’immagine di un dolore fisico che conclude circolarmente un testo iniziato proprio con una scena di sofferenza morale, la solitudine, che è quella del vecchio siciliano protagonista di pietre rosse.
Anche l’ordine con cui sono collocati i racconti risponde il più delle volte ad un disegno, ad un ordine mentale che non è poi se non il dipanarsi delle immagini che l’autore vuole trasmettere: i racconti sono quasi tutti ambientati in Sicilia, in luoghi a noi conosciuti; tuttavia il secondo racconto, Sabato di penitenza, è ambientato a Gerusalemme, in una sinagoga, e i due protagonisti che metaforicamente si fronteggiano sono un ebreo miscredente ed una palestinese osservante. Mi sono chiesta come mai l’autore abbia sentito l’esigenza di accostare già all’inizio del libro due racconti importanti nell’economia narrativa ambientati in due luoghi così distanti: forse vuole dirci che il male non ha patria, non ha tempo, non ha colore ideologico o religioso ma è nella natura umana e della natura umana.
E veniamo quindi al tema della raccolta: questo è’ un libro che colpisce allo stomaco e che non lascia il lettore indifferente: che piaccia o meno il lettore è chiamato a prendere posizione di fronte all’universo nero senza speranza apparente che viene rappresentato; il male è la chiave di conoscenza e di interpretazione della realtà odierna, domina sovrano e non risparmia nessuno dei protagonisti, siano essi le vittime o i carnefici.
La contingenza si materializza nelle vicende umane, la grande storia con le sue migrazioni epocali, con i suoi rigurgiti  xenofobi, omofobi, con l’odio che scaturisce dalla paura di non saper governare i fenomeni si cala nelle piccole storie degli uomini con tutto il suo bagaglio di dolore, di sofferenza e ambiguità e la Sicilia diventa un microcosmo, un osservatorio privilegiato di un mondo rovesciato su cui lo sguardo attento dell’autore si appunta per leggere e comprendere la realtà dei nostri giorni.
Ecco allora Amhid l’etiope, vittima prima della storia del suo paese di origine, vittima poi del dramma dell’emigrazione e infine vittima di un violento; o Rosalia Licitra, vittima della folle gelosia del marito, o Palak il nano vittima della sua deformità fisica.
Ma prima di tutto i protagonisti dei racconti sono vittime della solitudine , dell’incapacità o impossibilità di avere relazioni vere con gli altri esseri perché tutto viene distorto dal male supremo, l’indifferenza, che domina le loro esistenze: mi vengono in mente le parole a cui Adelchi, personaggio di manzoniana memoria, affida il suo testamento spirituale che afferma che sulla terra non resta che fare il torto o subirlo e questo è ciò che avviene nei racconti: vittime e carnefici si fronteggiano ma spesso non c’è una vera linea di demarcazione tra gli uni e gli altri e noi non possiamo non provare pietà anche per il carnefice; sono quindi, quelle raccontate, storie di ordinaria follia scaturita dalla solitudine: Severin, protagonista di Uguali e diversi dice ad un certo punto del suo monologo: “ogni tanto osservo; osservo la gente, la folla, le masse, e più ne vedo insieme più ne colgo la solitudine”.
E’, abbiamo detto, un universo senza speranza, senza provvidenza, perché il male è nell’uomo e, nonostante siano passati secoli di civilizzazione, l’uomo moderno è  “ancora quello della pietra e della fionda” (S. Quasimodo), un essere in cui la capacità raziocinante è sempre più sopraffatta dalla matta forza istintuale.
Sono storie di uomini umili, poveri socialmente e culturalmente, verrebbe da dire “brutti, sporchi e cattivi”, costretti a vivere ai margini dalla mancanza di coscienza valoriale. Perché la scelta di narrare temi così forti e inquietanti, certamente non consolatori? L’autore è riuscito ad esprimere “il mito della solitudine dell’uomo nel dolore della vita” (Finzi) e, nell’osservare e studiare la realtà, ritratta anche nei suoi aspetti più deteriori, invita noi lettori a riflettere su questo nostro mondo e su come cambiarlo, se è ancora possibile, per il bene di tutti.
D’altra parte uno scrittore, un artista, non può avere una posizione passiva nella società, perché egli, come disse Quasimodo, modifica il mondo. E per modificare il mondo attuale capovolto nel suo ordine, è necessario che l’occhio dell’artista vada al di là delle apparenze,  che non abbia paura di sporcarsi le mani, che abbia il coraggio di  usare immagini forti, non rinunciando  “alla sua presenza in una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente”.
Non più quindi una letteratura consolatoria, che ha fornito all’uomo suggerimenti, principi per consolarne il  dolore, ma non ha poi inciso sulla realtà per rimuovere le cause di tale dolore, ma una letteratura problematica e di  trasformazione della realtà sociale.
E per fare questo l’autore si avvale della scrittura. Raimondo Raimondi è uno scrittore di solida cultura e lo si capisce non solo dalle citazioni di opere di autori vari che introducono ogni racconto e ne rappresentano la sintesi e la metafora, ma lo si capisce anche dai rimandi letterari che non sfuggiranno a un lettore attento, dalla capacità e direi felicità narrativa che dispiega in questo libro. Una materia così complessa viene articolata in maniera elegante e agevole alla lettura, dimostrando una notevole padronanza del mezzo espressivo e un linguaggio moderno, controllato, mai scontato, come se l’autore avesse voluto comporre nella forma la drammaticità delle vicende narrate.

GABRIELLA RISTA
docente di lettere presso il Liceo Classico "Megara"

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